Il Gran Pavese Varietà fu diretta conseguenza di altri progetti che avevano già visto la luce proprio a Bologna. Prima del “Gran Pavese”, nel 1977 in seguito a esperienze politiche e femministe, avevo aperto un locale insieme a tre amiche: Fiorella, Rita e Antonietta Laterza. Si chiamava Tregenda, era in Via San Vitale 13 e l’ingresso era riservato alle donne. Qui organizzavamo spettacoli e feste, con l’obiettivo di creare un luogo dove le donne potessero incontrarsi, fare autocoscienza e sviluppare anche la propria vena creativa, a differenza di altre città come Milano e Roma. Il Tregenda ha chiuso poco dopo lo spegnimento forzato di “Radio Alice”, perché la tensione in città era diventata troppo pesante e la repressione si stava manifestando molto duramente. All’epoca io ero una studentessa di Pedagogia e avevo sostenuto molti esami al DAMS, dove ho conosciuto Patrizio e tanti altri amici, con cui ho sviluppato un profondo interesse nei confronti del teatro. Ho frequentato poi il primo anno di una scuola al Teatro “La Soffitta” basata in parte sul teatro classico, ma anche vicina al lavoro della commedia dell’arte. Un momento interessante in cui Bologna esprimeva un forte impegno nei riguardi del teatro, letteralmente diverso dalle altre città: mentre a Milano c’era il cabaret e a Roma la satira politica, a Bologna esisteva questa forma di teatro assolutamente originale, difficile da catalogare. Era un teatro che spaziava dai clown al varietà, passando per il teatro dell’assurdo e attraverso il demenziale. Ci siamo inventati così uno spettacolo legato al Varietà cominciando a esibirci in giro per l’Italia settentrionale. Quando abbiamo trovato una sede all’interno del Circolo “Pavese” è nato il nome Gran Pavese Varietà.
Il Gran Pavese Varietà era uno spettacolo alto e basso, di varia umanità, con un presentatore (Patrizio), una valletta (io, Syusy) ed il Professore Buda che psicanalizzava i personaggi sul palco. Successivamente sono arrivati i Gemelli Ruggeri, Vito, Bergonzoni, Hendel e tantissimi altri. Nel “Gran Pavese” c’era di tutto in tutti i campi, si spaziava in ogni tipo di abilità, dallo sport alla musica. La musica, per esempio, era un guazzabuglio di generi, dal rock al pop, dal liscio alla classica, dal jazz al demenziale… E la forza del “Gran Pavese Varietà” stava proprio in questa diversità. Diversità con elementi di assurdità e demenzialità. Tutti i numeri del “Gran Pavese” avevano sempre una “chiusura decente”, ma erano la trasposizione scientifica del fallimento su un palcoscenico. Anche il ritmo dello spettacolo, molto serrato, era un punto di forza del Varietà: un ritmo rubato alla televisione, con numeri di tre minuti ciascuno. Infatti il “Gran Pavese” significava l‘apertura a tutte le espressioni, di qualsiasi natura fossero.
La scelta del Circolo “Pavese” ci sembrò perfetta: era un luogo storico e soprattutto era un Circolo Arci, costruito sulle fondamenta classiche dei circoli. C’erano il direttivo ed il ballo liscio. Non è stato semplice essere accettati, ma ci hanno dato fiducia… Abbiamo cominciato con la serata più difficile della settimana: il giovedì. Già dalla prima stagione è stato un buon successo, l’attività di promozione ha funzionato alla perfezione. Abbiamo stampato manifesti e tantissime cartoline personalizzate: “Ti aspetto al Gran Pavese Varietà – Paolo”, “Non puoi mancare – Maurizia”. La gente, incuriosita, ha cominciato ad arrivare fin dai primissimi spettacoli. Tanto che, ben presto, ci siamo conquistati anche il venerdì e il sabato sera. Non parliamo di un successo dal punto di vista economico, la sala conteneva solo 150 spettatori per volta, ma a livello creativo è stato un vero e proprio evento. Il “Gran Pavese Varietà” ci ha portato in televisione, Gianni Minoli è venuto a vedere il varietà nascosto tra il pubblico e così lo abbiamo conosciuto. A lui abbiamo proposto questo spettacolo folle, visto da pochi ancora adesso assolutamente impensabile in qualsiasi palinsesto televisivo… Era un periodo, però, nel quale alcune persone lungimiranti prendevano decisioni controcorrente e si assumevano dei rischi.
Dopo siamo passati a Italia Uno realizzando con Antonio Ricci “Lupo Solitario”, un lavoro più televisivo. Quel programma ha gettato le basi per tanti altri successi televisivi targati Ricci, come primo esempio di programma televisivo demenziale capostipite di molti emuli a venire. Noi nel frattempo siamo tornati in RAI realizzando diversi programmi fino ad arrivare a Turisti Per Caso. L’idea di turisti per caso è nostra naturalmente, basata sull’idea di registrare le immagini utilizzando semplicemente delle videocamere portatili. Una scelta innovativa, che nessuno, fino allora, aveva pensato e messo in pratica. Ma tornando al “Gran Pavese”, fondamentale stato il corso per spogliarelliste dilettanti! Ho incontrato per caso l’ex stella del Crazy Horse Dodò D’Hambourg a un corso di yoga e subito mi è balenata l’idea di un corso di spogliarello… L’apoteosi! Giorgio Celli è venuto a parlare del corpo e questo corso per casalinghe ha suscitato scalpore. Sono arrivate tutte le testate nazionali, che ovviamente senza capire lo spirito del corso, hanno grattato solo la superficie. Un caso nazionale. Nessuno riusciva a comprendere come si potesse avere un approccio diverso nei confronti dello spogliarello. Eravamo degli eversivi. Io ero ancora una femminista convinta e credevo che l’esibizione e la bellezza non dovesse essere solo ad appannaggio di modelle superpatinate: volevo dare la possibilità a donne normali di potersi esibire con un atteggiamento ironico. Volevamo provocare e ironizzare. Donne normali, con una coscienza femminista, quindi coscienti, lanciavano una provocazione contro la bellezza ufficiale, quella delle passerelle.
La politica non era presente, direttamente, nel “Gran Pavese”, ma c’era nella sua trasgressione: mettere in scena situazioni assurde significa destabilizzare lo spettatore e quindi avere un elemento politico insito in sé. Eravamo alternativi non nelle parole, ma nella forma. Eravamo alla ricerca della demenzialità, quella che c’era all’esterno del circolo, che noi ospitavamo semplicemente all’interno del Pavese. Mostravamo l’assurdità degli anni Ottanta. In quel momento si prendevano sul serio gli yuppie, l’economia e la Borsa… Se ci penso ora mi sembra pazzesco! C’era il modello occidentale come unico ed assoluto. E l’unica risposta possibile, da parte di persone che avevano un po’ di senso critico, poteva essere solo mostrare la demenzialità dei fatti, delle persone e delle forme. La nostra ironia, però, non era a senso unico, perché come ironizzavamo sull’America, ironizzavamo sui Paesi dell’Est. Era un’ironia figlia del ’77, di un movimento critico e fantasioso, ma anche presuntuoso.
A caratterizzare Bologna in quel periodo è stato il governo della città, che nella sua democraticità aveva dato forma ad una critica nei suoi confronti. Noi siamo stati un prodotto di questa città e di questo stato di cose. Il tessuto sociale del capoluogo emiliano era intrecciato tra l’università e la sorprendente possibilità di realizzare le proprie idee. Bologna era un corpo che aveva generato i suoi anticorpi. Anticorpi che erano già in movimento. Lo strappo era inevitabile e la gestione della città negli anni successivi (dei Sindaci Vitali e poi Guazzaloca) è stata all’insegna dell’immobilismo, un vero disastro. La vendite delle “Case del Popolo”, la richiesta di affitti a equo canone… si è progressivamente smantellato un tessuto culturale e sociale molto importante per la città e per il suo sviluppo. L’amministrazione comunale non ascoltava i bisogni della popolazione, perseguendo una certa volontà di addormentare la città e chiudere tante fucine di creatività. E poi c’è stato l’attentato alla Stazione. Qualcuno ha voluto che la città si zittisse, dimostrando che potevano colpirla come e quando volevano. In più il fenomeno della droga è diventato un problema grande, che ha distrutto tante vite e paralizzato tanti progetti e idee. Poi è arrivata la manipolazione di tutto ciò che era stato diverso con l’inglobamento e la volgarizzazione televisiva.
Lavorare con un mezzo così popolare è sempre rischioso, bisogna stare attenti a non cadere solo nel desiderio di fare ascolti a tutti i costi… credo che questa nostra volontà di rimanere sempre un po’ alternativi, l’abbiamo pagata con un successo graduale, ottenuto soprattutto nell’essere autonomi nelle scelte e nella produzione. Noi produciamo i filmati di turisti per caso “in casa”, a Bologna, e questo ha un prezzo. Fare televisione è difficile perché la complessità e la diversità non sono più valori, ma disturbi al facile ottenimento dell’ascolto. Non si va in profondità in una notizia, non c’è il tempo e soprattutto paga di più terrorizzare la gente che informarla. Perché mai nei tg tutti urlano?! L’informazione oggi è tanta, ma tutta uguale. Questa è la nuova sfida del futuro: rendere giustizia alla complessità delle cose.
Comunque, tornando di nuovo al Gran Pavese ricordo che mi sono divertita tantissimo. Ho vissuto un’esperienza bellissima insieme a tanti amici. Quegli anni hanno significato lottare contro i mulini a vento… E’ stato stupendo e, per quel che mi riguarda, non è ancora finita.
Syusy Blady
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